Abbiamo chiesto a Giuseppe Lipani dell’Università di Ferrara di spiegarci i punti fondamentali che hanno informato la realizzazione del laboratorio teatrale e dello spettacolo itinerante “Che fai tu luna in ciel?” rappresentato a Ferrara all’interno delle attività della mostra Spazio 2019. Scienza e immaginario a cinquant’anni dallo sbraco sulla Luna.
D. Come si rappresenta un’emozione? Ossia come si rappresenta “quel tutto ciò” che la Luna ha suscitato nell’uomo?
R. Un percorso teatrale attorno alla Luna non può essere considerato alla stregua di un saggio divulgativo o di un documentario. Se vuole essere efficace, non può non essere un discorso emotivo. E di conseguenza, se vuole essere sincero, deve essere un discorso personale. In altre parole, essendo impossibile rappresentare “quel tutto che la luna ha suscitato nell’uomo”, diventava necessario rendere presente (questo il senso forte di rappresentare) ciò che ha suscitato in ognuno dei partecipanti al percorso di laboratorio teatrale che è stato attivato per l’occasione. Questo non ha escluso che i materiali elaborati fossero testi di grandi autori, come Buzzati o Pasolini, o ancora Leopardi, Garcia Lorca, Ariosto, ecc. Piuttosto questo ha significato che ognuno dei partecipanti è stato chiamato dai registi e conduttori del percorso, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, a trovare in quelle parole il proprio senso, la propria verità, come se venissero dette lì per la prima volta e lì dicessero la personale emozione dell’allievo nel mettersi in relazione con la Luna – una luna privata, come inesorabilmente è l’esperienza della Luna sia per chi la guarda alla finestra che per chi ha avuto la fortuna di metterci piede.
D. Qual è il valore educativo del teatro e come si svolge il processo comunicativo con lo spettatore?
R. E’ una domanda enorme. Cerco di rispondere brevemente, senza entrare in questioni filosofiche e senza note a piè di pagina. Credo che la risposta a queste due domande sia unitaria. Il valore educativo del teatro sta nella sua sapienza espressiva e relazionale. In fondo si educa proprio per mettere l’allievo in condizione di esprimersi, giusta l’etimologia di educare. E ci si esprime per entrare in relazione/comunicazione con l’altro. Il teatro è innanzitutto arte della relazione. La sua specificità è nell’essere relazione in presenza e immediata. A differenza delle altre arti, il medium è la persona stessa, e la tecnhé (l’arte in quanto la sapienza del fare) non si esprime in un’opera persistente ma nel corpo vivo e in divenire dell’attore, uno dei due poli di questa dialettica.
Il “come si svolge” è a un tempo semplice e terribilmente complicato. Mi verrebbe da dire: basta che qualcuno ci sia e si offra allo sguardo di qualcun altro disposto a guardarlo, perché possa avvenire questa comunicazione. D’altra parte in questo “esserci” c’è tutta la difficoltà e anche il quid specifico del teatro. Perché per esserci, per essere presente veramente, polo attivo di una relazione, bisogna non semplicemente presenziare o fingere qualcosa. Se così fosse, si interromperebbe la tensione e l’intenzione dello sguardo dello spettatore. Bisogna al contrario stare pienamente nel qui e ora di quell’atto comunicativo, compiere un’azione reale, che non vuol dire un’azione verosimile né un’azione con una logica di causa ed effetto, ma un’azione credibile per lo spettatore. “Non ti credo!” era uno dei rimproveri che un grande maestro di teatro del Novecento faceva ai suoi attori.
D. A livello teatrale come è cambiato il rapporto Uomo-Luna negli anni?
R Non saprei come può essere letto teatralmente questo rapporto, al di fuori delle occasioni in cui la Luna si è fatta più o meno esplicitamente tema e soggetto di spettacolo.
Tuttavia mi vien da dire che c’è un altro elemento che in questi cinquant’anni ha definito in modo nuovo questo rapporto e può essere visto come punto di contatto tra il tema della luna e il mondo del teatro. Ed è, secondo me, il disincanto. Lo sbarco è stato in qualche modo un atto definitivo di rottura, l’evidenza e la grande metafora del disincanto: del mondo, ma anche più banalmente, di tutto ciò che la luna è stata per l’uomo fino a quell’estate del ’69. Il teatro, strettamente legato ai segni del proprio tempo, in questi cinquant’anni ha fatto proprio questo disincanto. Se il nostro satellite per Goldoni nel suo Mondo della luna poteva ancora illudere e ingannare qualcuno mostrandosi (o in quel caso fingendo di mostrarsi) mondo delle meraviglie, dove si raddrizza quanto è stortura in questa terra, o ancora prima l’ariostesco mondo che raduna quanto qui si perde – e includo il Furioso in un discorso sul teatro non a caso –, quell’orma di Armostrong sulla superficie lunare non si è fissata invano, nemmeno a teatro. E mentre altre arti hanno amplificato la loro potenza illusiva, il teatro nel rifiuto dell’illusione e per essa del falso – non del finto che è invece nello statuto del gioco – ha cercato la via per una messa in prova dell’animo umano.
Diceva Pasolini che quell’orma non raccontava il futuro dell’uomo, bensì il passato, il suo inesorabile farsi cenere, lasciando esili tracce del proprio passaggio. Il teatro condivide questa solitaria grandezza del farsi passato, evento fuggente di una parola che è risuonata un tempo e che ora balugina nella memoria di chi c’è stato o nell’immaginazione di chi, faticosamente, ne ricerca le orme.